Indios delle Ande

Quechua Aymara

Con i Maya e gli Aztechi, gli Inca rappresentano una delle civiltà più avanzate e più complesse dell’America precolombiana. Il nome ufficiale del regno incaico è Tawantinsuyu, che in quechua significa “regno dei quattro cantoni”; fiorisce nel tredicesimo secolo ed occupa un territorio sconfinato che occupa fra l’altro tutta la Cordigliera delle Ande e rappresenta la più grande compagine statale precolombiana. Tradotto nei termini geografici a noi noti, significa l’intera fascia costiera dalla Colombia al Cile, toccando inoltre Ecuador, Bolivia, Paraguay ed Argentina. Nel Tawantinsuyu, che ha in Cuzco la città più importante, il Sole è la massima divinità e l’astronomia non rappresenta una scienza fra le altre, ma il fondamento dell’intera società. Come nota Pietro Radius, “sociologia e astronomia erano una sola pratica, saldate da una sorta di determinismo e di fatalismo che aveva già in sé l’idea della fine ed a tale evento preparava”. L’idea che l’impero sia destinato a finire è quindi molto radicato nella classe dirigente, ma questo non impedisce una resistenza plurisecolare contro l’invasione spagnola. Alla sconfitta del re Atahualpa, imprigionato ed ucciso da Pizzarro nel 1532, Manco Capac II fonda un nuovo stato incaico. Quarant’anni dopo viene ucciso Tupac Amaru, il leggendario personaggio che più di ogni altro incarna la resistenza antispagnola, e lo stato cade. Due secoli più tardi scoppia la rivolta capeggiata da Tupac Amaru II, che però soccombe come i suoi predecessori. Nel 1781 l’impero incaico tramonta definitivamente. All’inizio del secolo diciannovesimo il Sud America assume il volto che conosciamo: nascono le repubbliche, presto impegnate in una lunga serie di guerre che definiscono i rispettivi confini. Nel 1915 scoppia in Perù la rivolta di Rumi Maka: gli indios reclamano le proprie terre e l’autonomia politica. Richieste che si ripetono nei decenni successivi, sempre più o meno osteggiate dai vari governi – militari e civili – che si susseguono nei paesi dell’area andina. Negli anni Venti il sociologo peruviano Josè Carlos Mariateguì sviluppa un’analisi marxista della realtà socioeconomica del suo paese. Il suo obiettivo è quello di coniugare le rivendicazioni etniche con quelle di classe: la lotta da lui propugnata fa esplicito riferimento all’impero incaico, che Mariateguì considera l’espressione di un socialismo ante litteram. Tutto questo esercita un certo fascino sull’intelligentsia urbana, ma non riesce a coinvolgere i popoli aborigeni. Le nuove costituzioni (Perù, 1920; Ecuador, 1937; Bolivia, 1938) migliorano almeno in parte la condizione degli indios, ma non impediscono la progressiva spoliazione delle terre a vantaggio dei latifondisti. Privati così delle risorse fondamentali, gli indigeni cadono in uno stato di servitù agricola. La loro resistenza si rivela inefficace, perché i latifondisti possono contare su stretti legami col potere politico. Quest’ultimo deve però tener conto di un fatto: nei paesi dell’area andina i popoli indigeni non rappresentano sparute minoranze come in altri paesi sudamericani (Brasile, Colombia, Venezuela). Basta pensare che in Ecuador ed in Perù superano il 40%, mentre in Bolivia toccano addirittura il 70%. I popoli più numerosi sono i Quechua e gli Aymara. Questo spiega perché in Bolivia ed in Perù il quechua diverrà lingua ufficiale accanto allo spagnolo. La forte consistenza numerica permette inoltre agli indios si partecipare attivamente alla vita politica. In Bolivia, nel 1951, viene eletto presidente Victor Paz Estenssoro, ma gli oppositori non gli permettono di insediarsi. Scoppia così una rivolta popolare in appoggio al neopresidente, nella quale il contributo degli indigeni si rivela determinante. Durante la presidenza di Paz Estenssoro (1952-1956) un quechua viene eletto senatore per la prima volta. Viene varata una riforma agraria che sembra permettere una redistribuzione delle terre, ma in realtà gli indigeni non riescono a tornare in possesso delle proprie. Negli anni Sessanta, una buona parte degli attivisti indigeni subisce il fascino di Ernesto “Che” Guevara e vede nel marxismo uno strumento di riscatto sociale. Qualcosa di simile, ma ben più tragico, si sta ormai preparando nel vicino Perù, dove nel 1970 nasce Sendero Luminoso, movimento comunista di osservanza maoista. Il fondatore è un bianco, Abimael Guzman, poi meglio noto come compagno Gonzalo, professore di filosofia dell’università di Ayacucho. Il nuovo movimento fa leva sullo scontento sociale dei contadini, spesso quechua od aymara provenienti dalle regioni più povere, afflitte dall’analfabetismo e da un’alta mortalità infantile. Alcuni anni dopo, Sendero Luminoso opta definitivamente per la lotta armata, mentre guadagna seguito anche nei centri urbani. Sendero Luminoso si serve degli indigeni ma è culturalmente estraneo alle loro lotte. Non si deve comunque pensare che il movimento terrorista trovi il sostegno di tutti gli indigeni, che anzi ne sono spesso le vittime; la loro posizione rimane infatti molto delicata e spesso difficilmente classificabile. “Essere un sospetto senderista è pericoloso. Stare dalla parte del governo è ugualmente pericoloso. La neutralità può essere mortale” scrive un giornale boliviano. Il quadro si fa ancora più complesso quando l’azione della guerriglia viene ad intrecciarsi con quella dei narcotrafficanti, ed il progetto statunitense per la sostituzione della coca con altre colture trasforma molti indios in alleati dei senderisti. E’ comunque necessario sottilineare, anche se in modo sommario, la profonda differenza fra il narco-traffico e le implicazioni della coca – sociali, rituali, nutritive – per i popoli indigeni: l’antropologo boliviano José Mirtenbaum afferma infatti senza mezzi termini che “la soppressione della coca significherebbe la fine della cultura andina”. L’apparente convergenza d’interessi fra senderisti e indios non deve quindi trarre in errore. Mentre la guerriglia insanguina il paese, e non di rado si accanisce contro le comunità indigene, nascono i primi movimenti che daranno un’eco internazionale alle lotte degli aborigeni sudamericani. Nel 1980 l’antica capitale inca – Cuzco, in Perù – ospita il congresso che segna la nascita del Consejo Indio de Sur America (CISA). Il primo coordinatore del nuovo organismo è Ramiro Reynaga, un quechua della Bolivia. Figura centrale del movimento indigeno, Ramiro è figlio di uno dei più importanti intellettuali andini, Fausto Reynaga. Autore di molte opere, fra cui La revoluciòn india, Fausto parte da posizioni nettamente filosovietiche per approdare ad una “terza via” indigena che influenzerà profondamente il figlio. E’ l’ennesima prova dell’incompatibilità di fondo che esiste fra il marxismo ed i popoli indigeni, un fenomeno che si ritrova in altre parti del continente. Una conferma autorevole è quella che viene da Russell Means, leader storico dell’American Indian Movement: “E’ una dottrina materialista che disprezza la tradizione spirituale, le culture ed i modi di vita degli Indiani americani. Marx stesso ci ha definiti precapitalisti e primitivi”. Un’ottica che coincide appieno con quella di Ramiro Reynaga, fondatore fra l’altro del Movimento Indio Tupac Katari MITKA, intitolato ad un eroe della resistenza antispagnola, che non deve essere confuso con il Movimiento Revolucionario Tupac Amaru, marxista e sostanzialmente anti-indigeno. Non meno gravi sono i problemi che affliggono i popoli indigeni dell’Ecuador, che nella primavera del 1992 percorrono in marcia i 400 chilometri che separano Puyo da Quito per chiedere al governo la demarcazione dei loro territori ed una riforma della Costituzione che riconosca finalmente l’Ecuador come paese pluriculturale. Nello stesso periodo, le elezioni presidenziali riportano in primo piano i problemi del paese: il forte debito estero, l’inflazione alle stelle e l’epidemia di colera proveniente dal vicino Perù. I potentati economici chiedon
o che il paese si allinei definitivamente sull’onda neoliberale dei paesi confinanti. Il deposto presidente, il socialdemocratico Rodrigo Borja, negli anni precedenti ha invece promosso una politica di austerità che non è riuscita nei suoi intenti. Gli elettori sono sei milioni, un un terzo dei quali è costituito dagli indios, che vivono nella regione andina o nella foresta amazzonica. Il loro peso è quindi determinante, ma è assai impossibile conciliare i loro diritti territoriali con l’invadenza delle compagnie petrolifere in un paese dove il petrolio costituisce la maggior fonte di ricchezza Questo quadro è aggravato dalla piaga del narcotraffico: ormai l’Ecuador non è più un anello secondario della catena internazionale. Tutto questo disegna un futuro pieno di incognite per i popoli indigeni, che continuano a vivere emarginati nonostante la loro forte consistenza numerica. Un barlume di speranza arriva nel 1993, quando l’aymara Victor Hugo Cardenas viene eletto vicepresidente: è la prima volta che un indigeno raggiunge una carica così alta. Negli anni successivi, in effetti, ne derivano dei miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda l’educazione bilingue e l’imposizione di norme più restrittive per il disboscamento delle foreste. Ma è ancora troppo poco per indurre anche all’ottimismo più cauto.

Alessandro Michelucci

Fonti : Associazione popoli minacciati

Press ESC to close