Seguendo la via delle Ande dal Narino della Colombia si entra in Ecuador per la valle Atriz nella provincia Carchi, dall’idioma Caribe chaina Carchi a significare altra parte, mentre nelle lingue dei Chibcha e Muisca limite dell’acqua. Per i popoli del Peru chi vi abitava erano Quillasingas “naso d’oro” per i monili che vi appendevano, sottomessi come le altre popolazioni dell’ Ecuador dall’inca Tùpac Yupanqui a consolidare l’impero Tahuantisuyo fin quassù, a loro volta poi travolti da Francisco Pizarro e il degno compare Diego de Almagro nella sanguinosa conquista del Peru e tutti coloro che vennero dopo sulle vie dell’Eldorado. Da li si procede per la capitale Quito con i suoi edifici,i quartieri e le chiese coloniali, oltre a distruggere gli spagnoli hanno saputo creare stupende città che ancora conservano il loro fascino e una suggestiva atmosfera comune a tutti i centri urbani coloniali sudamericani dalla Colombia all’Argentina con le loro calli lastricate e i vecchi palazzi di pietra che cercavano di riprodurre la vecchia Europa in un altro mondo che non poteva sopravvivere ad una storia che non gli apparteneva.
L’ affascinante centro coloniale di Quito è dichiarato a ragione patrimonio, a cominciare dal monumentale Museo Colonial, la chiesa San Francesco nell’omonima plaza San Francisco, s’ammira l’ apice del barocco sudamericano nell’ iglesia Jesuita e le suggestioni della chiesa di San Agustìn con il suo monastero, per giungere all’ elegante chiesa iglesia Merced. Dall’ottentesca Basilica del Sagrado detta del Voto Nacional si va a plaza Indipendencia ove affaccia la cinquecentesca Cattedrale di Quito, all’ opposto il Palazzo Arcivescovile e da un lato della stessa epoca la residenza dei governatori spagnoli palacio Carondelet ora sede del governo con il pomposo cambio della guardia quotidiano. Poco fuori dalla capitale c’è un monumento che indica “0°0°0°”,”la Mitad del Mundo, dove passa la linea immaginaria dell’equatore, assieme alle banane e all’ arcipelago di Galàpagos, ha sempre attratto visitatori in questo piccolo Ecuador, che però racchiude una varietà ambientale ed etnica più vasta e meno nota, un territorio che fu la principale via di penetrazione alla conquista del sud America.
Da Quito s’incrocia quella via panamericana che traversa dall’estremo nord al profondo sud l’intero continente e qui s’ arrampica ad oltre tremila metri verso la provincia Imbabura con la ciudad blanca Ibarra e la regione de Los Lagos dagli splendidi laghi andini, costeggiando il San Pablo, ai piedi del maestoso vulcano di Imbabura, si va per la cittadina di Otavalo celebre per il suo mercato che gli indios animano da secoli, abili artigiani e commercianti che hanno saputo resistere anche agli spagnoli e la cui presenza nei più lontani mercati sudamericani è sempre considerata garanzia di elevata qualità. Ad un centinaio di chilometri dalla capitale verso ovest si incrociano le vie delle Ande con quella per la costa del Pacifico nella provincia ove sorge Santo Domingo Colorados , dall’ uso di tingersi i capelli degli indios Tsàchila che ancora stanno nella zona. Verso la cittadina di Cotacachi si trova la suggestiva reserva del Cotacachi Cayapas ,poi con una pista di montagna si può raggiungere la zona dei laghi di Mojanda ai piedi del maestoso Cerro Negro di Fuya Fuya e il massiccio di Yanahurco che domina l’omonima cittadina, costeggiando le splendide lagune del Mojanda fino a Cuicocha e lungo il rio Chiriacu si procede a nord incontrando le piccole comunità degli indios discendenti da quelli che s’opposero tenacemente all’invasione degli Incas dal vicino Peru , dai quali furono poi sconfitti nella furiosa battaglia di Yahuarcocha sull’omonimo lago. Per l’ostilità delle popolazioni sottomesse, vi deportarono gruppi indigeni più fedeli dal lontano Titicaca, compresi gli antenati di questi Salasaca, già all’epoca erano i migliori artigiani tessili dell’incaico Tahuantisuyo, che vivono in piccole comunità agricole tra le montagne ove sfuggirono ai conquistadores del sanguinario Pizarro e quelli che seguirono.
Rimasti ostili a qualsiasi contatto esterno, lungo le piste andine si riconoscono dal copricapo a tese larghe e dal poncho nero caratteristico per il lutto in seguito all’uccisione dell’Inca Atahualpa ad opera di Pizarro e dei suoi supay yuraj che sono i diavoli bianchi nelle lingue quechua. Un triste ricordo anche nella vicina provincia che però è ricordata per una battaglia nell’indipendenza, ove s’erge maestoso il vulcano di Pichincha, qui le povere comunità degli indios si sono rifugiate in un ambiente inospitale durante la conquista spagnola e continuano ostinatamente a sfruttarne le aride terre per le loro modeste coltivazioni. Verso sud comincia una delle vie delle Ande seguendo l’antica strada incaica che procede lungo la suggestiva via dei vulcani sulla dorsale andina dominata da una lunga serie di massicci vulcanici unica al mondo, tra i quali emerge nei suoi seimilacinquecento metri l’imponente Cotopaxi Collo della Luna in quechua, che da secoli minaccia il villaggio di Saquisili manifestandosi in tutta la sua drammatica bellezza di notte quando il ribollire della lava infuoca il cielo,dimora di antichi spiriti indigeni.
A sud della più volte terremotata cittadina di Latacunga la via prosegue nella provincia dominata dal maestoso vulcano Tungurahua ove per volere del conquistador de Belalcàzar fondatore di Quito, gli spagnoli edificarono San Juan che divenne Ambato devastata dal terremoto nel 1949 dal quale rimangono antichi edifici, la Cattedrale, qualche chiesa come la Merced, il giardino botanico La Liria, la Quinta dell’ottocentesco scrittore Juan Leòn Mera e il mausoleo del contemporaneo Juan Montalvo che sono tenuti di gran conto nella cultura di questo Ecuador. Di qui all’altra coloniale Bagnos e il Santuario del Rosario per la Virgen de Agua Santa ove pellegrini indios dai vari villaggi andini in quella mescolanza di antiche tradizioni pagane precolombiane e cattolicesimo popolare dalle strane e suggestive cerimonie che caratterizza la religiosità indigena in tutta l’America. Per gli indigeni ogni vulcano ha la sua leggenda che affonda nei meandri di antiche mitologie e così se la Madre è Tungurahua, il Padre è Taita Chimborazo, qui i francesi Bouguer e La Condamine nella prima metà del settecento vennero a cercare un punto dell’arco meridiano e a provare l’esperimento dello Schiehallion per convalidare le rivoluzionarie intuizioni di Newton. Settant’anni dopo ci arrivarono Humboldt e Bonpland a tentare di scalarlo nel 1802 senza giungere sulla cima di quella che all’epoca era considerata la montagna più alta al mondo, così passarono quasi altri ottant’anni prima che il britannico Whymper e l’italiano Carrel arrivassero sulla sommità dei seimilatrecento metr . Sebbene ci si accorse poi che l’himalayano Everest è il più alto al mondo sul livello del mare, la sommità di questo Chimborazo, che s’erge con la sua magnifica veduta , è la più distante sulla superficie terrestre dal suo centro. Domina l’omonima provincia de Chimborazo assieme al suggestivo vulcano Sangay di superba bellezza e ricchezza da farne patrimonio con il suo parco naturale, poi la città coloniale di Riobamba è la sultana delle Ande anch’essa dominata maestoso Chimborazo.
Su questa via la città andina appare doverosa sosta e si lascia visitare nelle strade lastricate ove affacciano antichi edifici e s’aprono le splendide piazze, dal monastero de Las Conceptas agli storici musei, il centrale parque Maldonado , l’architetura barocca della cattedrale e le altre chiese coloniali. Il grande e variopinto mercato di Riobamba attira gli indigeni da ogni angolo della regione per i loro secolari commerci e la presenza di medici e cavadenti improvvisati, ciarlatani dai farmaci miracolosi e imbonitori che offrono indecifrabili prodotti nella lingua degli indios quechuas che lo animano, curanderos, inquietanti brujos e pittoreschi chamanes che propinano rimedi della medicina tradizionale andina. Poco distante sull’omonima laguna sorge Colta ove , mentre ancora erano vivi gli echi delle violenze dei conquistatori, gli spagnoli costrurono l’ Iglesia Balbanera, la prima delle chiese del cattolicesimo in Equador, ove gli indigeni consultano il sacerdote dopo curanderos o i brujos di Riobamba cercando rimedio ai loro mali secolari. Di qui si va per la regione popolata dagli indios Puruhà o Puruhaes, nei villaggi di Pungala, Licito e Cabadas, da sempre convivono con eruzioni e terremoti preferendo la furia della natura a quella dei conquistadores ai quali sono sfuggiti in questa zona, conservando le antiche tradizioni, quasi un museo etnico vivente di un’epoca travolta in pochi anni dall’arrivo di Pizarro.
Per antichi sentieri segreti tracciati dagli indios per sfuggire all’avanzata dei conquistadores sulla via dei vulcani, si accede in un territorio ancora poco noto sempre nella provincia della gola ardente Tungurahua dominato dai massicci vulcani del Sangay con il suo Parque nacional ove si ergono l’Ayapunga e il Soroche. Con qualche giorno di marcia si scende nella fertile valle di Cajabamba per riprendere la via nel Cantòn Guamote ove dal sedicesimo secolo sorge l’omonima cittadina coloniale in anch’essa distrutta da un terribile terremoto nel 1797 con il quale gli dei si vendicarono degli spagnoli, secondo la tradizione indigena. Dal centro di Alausì parte la suggestiva ferrovia del treno andino che arrampica tra le montagne per la Nariz del Diablo tra i magnifici paesaggi di questo itinerario tra i vulcani che poi scende verso la pianura occidentale, il clima freddo e asciutto andino cambia nell’umida calura tropicale che favorisce le piantagioni di banane, cacao e caffè dove gli spagnoli cercarono di far lavorare gli indios come schiavi, stroncati a migliaia dal clima e da un lavoro a loro sconosciuto. I prodotti delle piantagioni vengono caricati dalle navi sul fiume discendendo il rio Guayas fino al suo sbocco nella costa del Pacifico a Guayaquil che si stende caotica e tropicale con il porto animatissimo di bastimenti da tutto il mondo che caricano tonnellate di banane per i mercati internazionali e dal cui aeroporto partono i voli regolari per le isole Galàpagos, uno degli ultimi grandi “paradisi naturalistici” del mondo.
Ad oriente la via dei conquistadores sprofonda nell’immensa selva dell’Amazzonia affrontata per la prima volta nel 1541 da Francisco de Orellana, luogotenente di Gonzalo Pizarro fratello di quel Francisco che aveva conquistato e devastato il Perù , alla ricerca di spezie e cannella che non trovò, poi si spinse su un fiume alla ricerca di cibo entrando nel rio Napo che serpeggia nella jungla fino a gettarsi nel maestoso Amazonas nella zona di Iquitos.Trovò indios ostili i cui guerrieri combattevano assieme alle loro donne e il grande fiume ignoto divenne il il rio delle Amazzoni, la leggendaria spedizione di Orellana ne seguì l’intero corso sempre nella foresta fino all’ immenso estuario nell’Atlantico da dove attraverso la Guyana, raggiunse la colonia di Cubagua vicino Trinidad, compiendo una delle più temerarie ed avventurose esplorazioni in America, aprendo quelle vie amazzoniche e ottenendo dall’impero spagnolo il permesso di colonizzare gli immensi territori attraversati, ma naufragò e perì nell’estuario che aveva violato.La prima parte della via di Orellana scende da Cuenca nella Cordillera oriental fino all’avamposto di Sucua da dove trovarono gli affluenti del Napo tra le miriadi di corsi d’acqua che serpeggiano e si incrociano nella jungla nei territori indios, alcuni dei quali molto isolati che hanno conservato antichi costumi e tradizioni. Ripercorrendo quella via sul rio Aguarico si trovano i cofàn , nella foresta del Cuyabeno le comunità Secoya, quelle Siona procedendo sul Putumayo, mentre tra il Pastaza e il Napo s’incontrano gli Zàpara. Poi nel territorio a lungo evitato popolato dagli indigeni del popolo Shuaras poi chiamati anche barbari Jìvaro, temibili guerrieri cacciatori e riduttori di teste nella loro pratica Tsantsa , con i quali si scontrarono molte spedizioni che seguirono nella vana ricerca dell’Eldorado e su quelle dell’Amazzonia che sono andato a seguire come questa via delle Ande.